Leopardi «progressivo» (1948)

Recensione a Cesare Luporini, Leopardi progressivo (in Id., Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, Sansoni, 1947), «Nuovo Corriere», Firenze, 17 luglio 1948, p. 3, poi raccolta, dal 1984 (Appendice II), in W. Binni, La nuova poetica leopardiana cit.

LEOPARDI «PROGRESSIVO»

Il pensiero di Leopardi e il suo atteggiamento morale, troppo spesso considerato fuori della loro concreta vita poetica, han dato luogo a interpretazioni contrastanti e mutevoli a seconda delle varie stagioni filosofiche, e non sembra azzardato affermare che perfino nella valutazione della poesia leopardiana simpatie e antipatie di origine ideologica son venute ad incidere pericolosamente sul giudizio del valore, dalla esaltazione indiscriminata della Ginestra ad es. nel periodo positivistico alla incomprensione degli ultimi Canti in periodo di stretto crocianesimo. Cosí il Leopardi apparve «maestro di vita» ottimistico, precursore dell’irrazionalismo, inclinato ad una sostanziale accettazione della vita quasi attualisticamente, surrogato italiano dell’esistenzialismo kierkegaardiano.

Ed ora Cesare Luporini, che nel 1938 aveva parlato per Leopardi di un’esperienza religiosa di tipo esistenzialistico, riprende in un saggio lungo e sottile, Leopardi progressivo, la discussione sulla direzione del pensiero leopardiano e piú decisamente punta sul suo atteggiamento etico-politico: piú che filosofo, «combattente». Premetto che ogni possibile riferimento ad una dottrina «politica» mi apparirebbe (non che Luporini lo faccia con precise parole) inopportuno e che se sono accertabili il disprezzo leopardiano per formule di compromesso liberale del suo tempo e l’affermazione di un solidarismo umano («la grande alleanza degli uomini intelligenti contro alla natura e contro alle cose non intelligenti»), nel Leopardi c’era, al di là della sua lotta contro il «progressismo» liberalmoderato e spiritualistico, una tale cittadella di critica ad ogni «felicità» di organizzazione, ad ogni soluzione che non partisse da una prima solitudine intatta, da sconsigliare ogni riferimento troppo preciso; e ad esempio, il finale un po’ eloquente del saggio circa il ’48 e il significato che avrebbe potuto avere per il Leopardi. «Il ’48 avrebbe certo significato qualcosa, e forse molto per Leopardi. Ma non sappiamo se il ’48 dei liberali, dei moderati o dei «democratici» italiani. Egli si trovava su un’onda piú lunga». Sí, un’onda piú lunga: ma piú lunga di qualsiasi onda che approdi ad una civiltà che si consideri ottimisticamente definitiva nella sua sostanziale struttura e contro cui il Leopardi avrebbe ricorso al suo rigore assoluto di malpensante, alla sua nuda persuasione antimito che, lungi da ogni scetticismo di conservatore, lo rendeva piú progressivo di ogni limitata rivoluzione. E non potremmo ridurre il pessimismo leopardiano ai limiti di quella «delusione storica» che pure Luporini documenta con molta finezza. Tuttavia il saggio di Luporini è una di quelle macchine «per fare correnti d’aria» che ci sembrano cosí provvidenziali in questo periodo di revisione della critica leopardiana.

Luporini risolve anzitutto la vecchia questione circa la filosofia del Leopardi nella realtà del moralista che interpreta nei limiti dell’epoca romantica, un momento essenziale, il dramma della situazione umana (romantica, ma su base razionalistica) in cui le grandi parole «natura», «ragione» vengono piú che definite presentate come «personaggi di un dramma» e sentite nella loro continua crisi di sviluppo e di arricchimento nel loro contrasto di grandezza e piccolezza. (Ed anche in tal senso l’atteggiamento esplicito dell’ultimo periodo leopardiano ferma con violenza inequivoca questo contrasto del mondo del valore e del disvalore: persuasione contro «mondo sciocco», pensiero interiore e dominante contro «voglie» esterne e basse, forza umana cosciente contro il mondo delle cose a cui il «mondo sciocco» viene ad adeguarsi nel segno del disvalore per la sua frivolezza).

Nel contrasto natura-ragione del piú giovanile Leopardi, la prima genera con la passione le illusioni e la seconda l’indifferenza e l’egoismo che diventa universale e costituisce la trama della società moderna: «barbarie» a cui il Leopardi contrapponeva la vera «società» basata sull’uguaglianza, animata dalla virtú, volta alla felicità di tutti.

Cosí il Luporini: «il problema politico, il problema della società sta al centro dell’interesse umano del Leopardi e costituisce in certo modo il corpo e la carne intorno all’ossatura della iniziale e fondamentale antitesi di ragione e natura».

Sicché la maniera per sciogliere il nodo del pensiero leopardiano consisterebbe nell’illuminare la posizione del Leopardi di fronte alla propria età.

E certo un energico rilievo agli interessi profondamente attivi del Leopardi di fronte alle riduzioni sensibilistiche o alle formule dello «spettatore», merita ogni consenso, specie in vista di come si atteggerà lo spirito leopardiano negli ultimi anni; ma è anche esagerato ridurre tutto il travaglio complesso dello Zibaldone in anni di sviluppo ben preciso (gli anni che preparano e nutrono le Operette e i grandi idilli) ad un fine etico-politico di «società» e l’atteggiamento combattivo («egli si sente soprattutto impegnato di fronte alla propria epoca, un combattente in essa, e la presa di posizione dinanzi ai suoi tempi è per lui di gran lunga il problema piú importante e urgente, piú travagliato e drammatico») vale molto diversamente per il Tristano e per la Ginestra che non per il Canto d’un pastore o per le prime Operette.

Naturalmente il processo di questa interpretazione, che ha ottimi approfondimenti (negazione della perfettibilità e non negazione del progresso, vitalismo in crisi con nichilismo per mancanza di un nesso dialettico), si fa piú chiaro e convincente quando nell’ultima parte del saggio viene studiata l’ultima fase in cui un nuovo atteggiamento – cosciente della sua novità – spiega e in realtà crea con una nuova intonazione quanto nello Zibaldone era in continua revisione e soggetto inevitabilmente (ciò che Luporini meno considera e che gli viene rimproverato dalla Noterella leopardiana di N. Sapegno sulla ultima «Rinascita») alla influenza della poetica le cui linee sostanzialmente dominano e verificano ogni atteggiamento leopardiano. È nell’ultimo Leopardi che la «delusione storica» trova il suo valore di stimolo all’atteggiamento eroico ed altamente agonistico e si traduce in lotta contro il «mondo sciocco», lo spiritualismo, l’ottimismo ottocentesco, ma in realtà (nella sua contemporanea lotta contro la natura) è pure motivo simbolico di una rivolta piú larga e piú assoluta contro ogni «mondo sciocco» e contro la base stessa di ogni mito, di ogni illusione che viene a identificarsi come non-valore, con la cieca prepotenza delle cose, con il «brutto poter che ascoso, a comun danno impera».

È l’ultimo Leopardi che, libero dalla poetica del vago e dell’indefinito, del ricordo e delle illusioni (poetica che dette luogo al piú perfetto canto idillico), e dalla sua inevitabile influenza sulla direzione delle ricerche, unifica le sue intuizioni, le salda in un unico atteggiamento, in una persuasione eroica piú stoica (ottima la distinzione del Luporini dal Leopardi-Epitteto a volte affermato come fondamentale), in un contrasto in cui la ragione acquista la generosità e grandezza della passione e, con i caratteri che il primo Leopardi attribuiva alla natura, lotta contro la «illaudabil meraviglia» fino al severo e disilluso solidarismo umano della Ginestra.

Inclini a far molto piú caso delle indagini coraggiose e rischiose che non delle prove conformistiche e in particolare lieti di ogni sforzo che miri ad arricchire e approfondire l’immagine del nostro piú grande poeta moderno, riconosciamo ben volentieri al saggio di Luporini il carattere di un contributo stimolante e valido, sia pure nella sua tendenziosità, per una piú vasta e storica ricostruzione dell’opera leopardiana.